Marchesini uno di noi

10 Dic

Atti mancati | di Matteo Marchesini | Voland 2013

Cover Marchesini

di piero grignani

Ci scusi il lettore se proprio in apertura, davanti a tutto, finisce l’ego di chi scrive – che è cosa davvero patetica quando si parla dei libri degli altri – tuttavia nessuno impedisce di saltare quanto sotto e ritrovarsi al capoverso successivo.

Per chi prosegue, è doveroso sapere che il recensore è arrivato a Berardinelli – mentore del giovane Marchesini – e al Bellocchio Piergiorgio (in quanto personalità evidentemente, ché non si possono vantare maggiori intimità) per via Fortini, Cases e Timpanaro, risalendo con sforzo dalle malie ontologiche dei fautori del pensiero negativo e antidialettico, insomma i Tronti, i Cacciari e gli Asor Rosa, per capirci. Bene, chi scrive è quindi convinto di aver trovato in Marchesini, che stima di barbarica razza provinciale – come la propria peraltro – un fratello di elezione. Legge con gusto il libretto della Gaffi (facendo invero un po’ fatica tra allusioni e sarcasmi), quello delle Edizioni dell’Asino sui cinque civilissimi e solitari campioni (quante citazioni però), evita per indolenza la produzione poetica ma non perde il primo romanzo, appunto questo Atti mancati. Ne resta però, ahimè, parzialmente deluso. Cerca in rete chi sappia dare ragione di tale scontento, eppure dalla rete, nonostante del libro, poi anche candidato allo Strega 2013, se ne faccia un gran parlare, ne cava fuori poco.

Il motivo è che sul web è tutto un rincorrersi e nascondersi negli stambugi della storia, tra rimasticature, glosse ingegnosissime ed empatie varie: come se l’autore avesse costretto, con crudele perfidia, ogni potenziale esegeta all’interno del recinto da lui allestito; al critico solo la selezione del tema più affine per sensibilità o cultura: la malattia di Lucia, misto di eros e thanatos? Va bene; l’aporia tra vita reale e intellettuale in cui si dibatte il Marco Molinari alter ego dell’autore? Ancora meglio; ma perché no la presunta guarigione di Marco e il suo Bildungsroman a funzione terapeutica? Oppure il rapporto maestro-allievo? O la città di Bologna con i suoi vizi? Alcuni nomi: Michele Lauro per la versione online di Panorama; Gloria Ghioni su CriticaLetteraria; Raffaella Galluzzi per mangialibri, Nicola Vacca per Satisfiction, e su questi contributi davvero poco possiamo aggiungere. Solo un appunto: Lauro scomoda in un picco di bulimia ermeneutica Shakespeare, Dostoevskij, Svevo, Tozzi, Schnitzler e Hitchcock: troppi. Più efficace resta il Rubé indicato da Onofri nel brevissimo medaglione sul sito dello Strega. Ma il Borgese chi più se lo fila? Però forse Rubé ancora si trova in edizione economica e andrebbe letto. Invece nessuno dice di Palandri, nonostante il suo Boccalone, eroe memorabile del libretto omonimo, sembra davvero fare il verso al protagonista di Atti mancati: anche lui bolognese, anche lui scrive per ragioni esistenziali e anche lì c’è di mezzo un amorino tardo adolescenziale; e però da quelle paginette sghembe ma liricissime uscivano a fiotti gli anni settanta; qui al massimo fa capolino un quadretto mesto e compiaciuto del giovane intellettuale italiano degli anni zero.

Se ne è accorta mi pare la sola Federica Urso nel suo Dusty Pages in Wonderlad, che in un testo un po’ farraginoso e per altri versi discutibile (ma davvero i “pollici nocchieruti” descritti da Marchesini sono tanto tremendi da invocare un editing più pesante?) intuisce un latente eccesso di compiacenza dell’autore nei confronti del suo personaggio principale. Ma non è la solita autoreferenzialità generazionale a disturbare, è piuttosto la sottile sensazione di gioco di specchi. Il dubbio è che tutta questa catarsi attraverso le stazioni di un privatissimo Sacromonte non sia espressione di una qualche faticosa quanto necessaria redenzione, da raggiungere attraverso la scrittura, ma resti funzionale a quella “aspirazione pubblica” che il nostro Molinari/Marchesini non nasconde di aver perseguito fino ad ora.

Cosicché le uniche pagine che suonano vere sono quelle da cui cola come eccedenza purulenta quel tanto di odio di classe che solo le ambizioni sovraeccitate dei figli intellettuali della piccola borghesia italiana sono ancora in grado di secernere. E qui, finalmente, chi scrive ritrova il fratello di elezione, il capo di quel filo che da Berardinelli porta a Fortini, il quale aveva osato ricordare che tra lui e il Giaime Pintor eroe della Resistenza passava una profonda faglia di classe, e infatti al “manifesto” volarono gli stracci. Ma questa è una storia vecchia che non interessa più a nessuno. Solo un’ultima nota: che frustrazione scoprire dietro al Bernardo Pagi, guida morale e intellettuale del protagonista, proprio Alfonso Berardinelli; non si poteva fare Fofi, per restare in quota piacentina? Questo Pagi/Berardinelli ritiratosi sulle colline, che beve in osteria con Guccini e un architetto inglese, davvero è un colpo basso.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *