Davis o il fascino sfacciato dell’antieroe

31 Mar

A proposito di Davis | di Joel ed Ethan Coen | con Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin Timberlake, John Goodman | Usa 2013

A proposito di Davis

di valentina t. gelmetti

Il fascino sfacciato dell’antieroe. Così verrebbe da rinominare l’ultimo – ottimo – film dei fratelli Coen, non a caso onorato dallo snobistico Festival di Cannes (col Grand Prix della Giuria) ma ignorato dai trionfalistici Oscar (salvo due nomination minori per fotografia e sonoro). Davis, il protagonista, è un perdente. Non solo, Davis è personaggio spigoloso e irritante. Per quanto magnetica e avvolgente sia la sua musica, il folk singer è nella vita un amico opportunista e urticante, pronto solo a occuparti il divano di casa e sputarti addosso sentenze di ipocrisia e imborghesimento. Eppure è proprio questo l’aspetto più interessante della pellicola: i Coen non cadono nella facile fotocopia delle vite da bohème intrise d’assurdo dell’insuperabile Aki Kaurismäki ma lavorano per opposti rispetto al finlandese dipingendo un ritratto d’artista che è un antieroe sbruffone, egoista, belloccio e talentuoso. Uno sicuro di sé e della propria musica. Uno che si prende pericolosamente troppo sul serio salvo poi diventare fautore della propria sconfitta e autoassolversi come vittima di un mondo ingiusto. Uno per il quale si prova repulsione ma nel quale è inevitabile rispecchiarsi.
Gran parte della critica, giustamente, ha sottolineato tali caratteristiche: “il film è parabola universale di un perdente (per scelta) nel quale, in un modo o nell’altro, per sogni o per scontrosità, per passioni o per inettitudine, ci possiamo riconoscere tutti” (Comingsoon), Davis è “un personaggio così egocentrico e sofferente, da rappresentare l’umanità tutta intera” (Retrò), “un personaggio tragicomico e sventurato che suscita ilarità in alcune scene, ma per il quale è difficile provare completa empatia. Il suo senso d’irresponsabilità, l’essere presuntuoso, l’ossessione per la ricerca della musica autentica non aiuteranno lo spettatore a provare un rapporto simpatetico con il protagonista” (Spaziofilm).

Interpretato senza macchia da Oscar Issac in una spericolata (e contestata) reinvenzione del vero musicista Dave Van Ronk, Llewyn Davis non è molto dissimile da quel gatto che gli sfugge di mano e che continua a inseguire. Il parallelo, del resto, è suggerito dagli stessi registi nella battuta-misunderstanding telefonico “I have the cat/Ok, You are the cat”: Davis è come un gatto, la sua musica ne ha la stessa sinuosità e lui ne ha lo stesso sfacciato egoismo. Però, a differenza del gatto della storia, che non a caso si chiama Ulisse, Davis non ha una dimora a cui tornare. E così vagabondeggia da divano a divano. In questo “Llewyn Davis è l’estrema incarnazione del popolo ebraico, costretto a vagare, sradicato dalle sue radici, dalla sua casa, senza una dimora fissa. […] Il suo è viaggio antiomerico. L’Ulisse è altra cosa. Ciò che aspetta lo sventurato Davis è un’ulteriore perpetuazione vacua dell’esistenza, non una Penelope fedele” (Indie-eye): interpretazione intrigante e di facile effetto che comunque ben veste le origini giudee dei due registi.

Se Davis non ha una casa a cui tornare, il film ci mostra la sua vita come un eterno ritorno, un ruotare su se stessi senza avanzare, senza via d’uscita. “Un cerchio narrativo che assomiglia di più a una spirale, dentro cui vediamo Davis precipitare ogni momento un po’ di più: una specie di maledizione kafkiana” (Mereghetti sul Corriere). In questo girare a vuoto, in questa realtà di “grigiore imperante” (Telefilm central) s’insidia la disperazione del protagonista. I Coen mostrano una realtà durissima e cinica: proprio per questo, per quanto indisponente possa essere il protagonista, il loro sguardo è di compassione e dolcezza. La critica web è in realtà divisa su questo punto, sintomo di una sapiente arte nello sfumare emozioni nella mano dei due registi. Da un lato, Comingsoon parla di “tenerezza forse inedita nel cinema dei Coen” così come Il Manifesto scrive di “uno dei lavori più dolci, meno graffianti dei due fratelli”; dall’altro Filmidee etichetta A proposito di Davis come “un altro spietato capitolo della loro ormai trentennale tragicommedia umana”. E in effetti il lapidario giudizio “qui non ci vedo molti soldi” pronunciato dall’impresario discografico dopo quel provino così dolente e di tangibile commozione sulle note di ‘The Death of Queen Jane’ ha tutto il bruciore di uno schiaffo sul viso di un bambino di 8 anni che, nonostante tutto, trattiene le lacrime.

La realtà di A proposito di Davis fa male. Ma anche se i Coen ce la fanno vedere, lo fanno con una luce ovattata, non mostrandocela a fuoco ma in penombra, così come in penombra appare la sagoma di Bob Dylan: lo spettro del vincitore, dell’eroe, di quello che Llewyn Davis/Dave van Ronk non sarebbero mai potuto essere. Come si legge su Cineforum: “la splendida fotografia di Bruno Delbonnel diluisce i toni caustici in un abbraccio di colori desaturati. E l’incoerenza di Davis – l’uomo che non sceglie – diventa un morbido esempio di umana inadeguatezza, la culla di rimpianti destinati a durare nel tempo, un’anamnesi ambulante del fallimento”.

In questo mondo dove si gira a vuoto, la musica è l’unico antidoto? Forse no, ma almeno addolcisce il viaggio quando fuori fa troppo freddo e non si hanno il cappotto e le scarpe adatte, quando i corridoi del successo sono troppo stretti per passarci in due, quando i divani sono troppo scomodi per trovare pace, quando i tavoli sono troppi piccoli per nascondere gli scatolini dei dischi invenduti. Per nascondere la propria disfatta.

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