L’invisibile materia oscura del documentario italiano

14 Gen

Materia oscura | di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti | Italia 2013

materia oscura film documentario

di valentina t. gelmetti

L’ultimo Festival di Venezia ha segnato il trionfo di Sacro GRA. Sulla carta, una scelta audace che finalmente riconosceva valore a un genere, quello del documentario, troppo spesso ignorato dai riflettori mediatici e dalle sale. Visto il film, tuttavia, l’atto sovversivo del Presidente Bertolucci si squaglia impietosamente: al netto del Leone d’oro, l’opera di Rosi è prolissa, mediocre, dispersiva. E il giudizio si fa ancora più drastico se la si mette a confronto con il documentario italiano del 2013, ovvero Materia Oscura.

Sebbene sia stato presentato-acclamato alla Berlinale e poi in altri festival internazionali (tra cui il prestigioso Cinéma du Réel di Parigi), a differenza di Rosi, il doc di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti non ha trovato una distribuzione ma solo proiezioni-evento o brevi teniture. In ogni caso, per i pochi che l’hanno visto e per i pochissimi che ne hanno scritto sul web, il parere è unanime: un film di altissimo livello, “meraviglioso, necessario”  (Cinemaitaliano), “politico e poetico” (Il Ciotta-Silvestri), “atroce e dolcissimo”  (Cineclandestino).

Sia Sacro GRA che Materia Oscura sono riconducibili alla definizione ormai consolidata di “documentario di creazione”: indagini sul reale, spesso di denuncia sociale, che hanno uno stile molto personale e poetico, al limite della video-arte. Ma se nel primo la creazione deriva da un accumulo di stravaganze che si rincorrono lungo il Grande Raccordo Anulare romano, nel secondo scaturisce invece da un rigoroso lavoro di svuotamento sul visivo, sulle parole, sui personaggi e sui luoghi. Il tutto per arrivare a una denuncia che si pone sul piano dell’astrazione, del simbolico. Come sottolinea acutamente Filmidee: “dopo due viaggi nei meandri della società italiana (I promossi sposi e Grandi speranze), il cinema della coppia di documentaristi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti si sta spostando verso l’indagine di un luogo non più geografico ma simbolico, una mappatura di spazi significanti dell’immaginario contemporaneo, dall’aeroporto de Il castello alla base militare di Materia oscura, che nel dispiegare il loro funzionamento rivelano i meccanismi odierni del controllo e della distruzione”.

La materia (oscura) del film è quella del Poligono Sperimentale del Salto di Quirra in Sardegna dove, per oltre 50 anni, i governi di tutto il mondo hanno testato armi e arsenali militari compromettendo inesorabilmente il territorio. “Un soggetto bello scottante, roba da far schizzare in alto l’indignometro dello spettatore impegnato e del rasta del centro sociale che comincia a fare del volantinaggio con teschi e slogan anti-americani” sentenziano con goliardico sarcasmo i ragazzi de Gli Sbandati. Boutade a parte, il merito di D’Anolfi e Parenti è di aver fatto della loro denuncia una questione non di contenuti ma di linguaggio rifuggendo il classico (e ormai innocuo) documentario d’inchiesta e ponendosi agli antipodi dello stile da luna park dell’ultimo Michael “Gabibbo” Moore. In Materia oscura lo scopo non è una facile indignazione ma il far penetrare sottopelle le sofferenze. O anche, come dice Alessandro Baratti de Gli Spietati, far sprofondare nell’assurdo del reale: “Non si cerchi inchiesta giornalistica o illustrazione didascalica in Materia oscura […]. Il film vuole precisamente scongiurare il semplice effetto indignazione e penetrare nel dominio del surreale. Perché oltre lo sdegno non c’è che il sentimento dell’assurdo, permeato di tristezza”.

Il tutto senza alcuna retorica, ma con un uso sapiente del visivo e del sonoro. Appunto, del linguaggio filmico. Le esplosioni frastornati squarciano i silenzi di quella Sardegna desertica mentre le immagini shock della vivisezione di una cavia prendono a pugni la voce monocorde del Procuratore Domenico Fiordalisi che, in un’intervista radiofonica, riporta asetticamente i dati e i numeri del disastro ambientale dell’aerea. Come ha sottolineato Il Ciotta-Silvestri, i due autori sanno bene che “un’immagine visiva e un’immagina acustica vanno fatte marciare in asincrono per quadruplicarne la potenza, giocando sulle anticipazioni, sulle sorprese, sul controbalzo”.

Il finale del documentario, da solo, è una pagina di grande cinema. In un lungo piano sequenza, la mdp osserva da vicino, con uno sguardo compassionevole e mai pornografico, la sofferenza di vitellino malato salvo poi allontanarsi con un altrettanto dilatato camera-car. Un movimento all’indietro come per prendere il graduale e giusto distacco dall’atroce oggetto di visione. Non un gesto di fuga, ma di sensibilità, di rispetto. Così come la prima parte del film è caratterizzata da una doverosa lentezza per avvicinarsi al fulcro dell’indagine, alla materia oscura, così anche l’epilogo si prende i propri tempi nel momento di commiato. In Materia oscura c’è “una distanza-prossimità semplicemente miracolosa” (Gli Spietati), un movimento paziente di osservazione, di avvicinamento-distacco che soli i veri documentaristi sanno attuare. Chapeau.

***

Nota a margine #1: Più che ad Herzog spesso citato nelle recensioni, in un’intervista a Movieplayer, i due registi hanno rivelato che i loro modelli di riferimento sono stati in realtà due cartoni animati: WALL·E e Il mio vicino Totoro. Un aspetto inaspettato che sarebbe interessante approfondire, magari in un’altra sede.

Nota a margine #2: Quei simpaticoni de Gli Sbandati hanno assistito alla presentazione del film al Festival Filmmaker di Milano alla presenza dei due registi e, testimoni loro malgrado della discussione dopo proiezione (della serie ‘no, il dibattito no!’), hanno affrescato un ritratto dei due registi assai divertente

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